Gli affreschi sconosciuti del castello di Sant’Agata dei Goti

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Gli affreschi sconosciuti del castello di Sant’Agata dei Goti

Affreschi sconosciuti a Sant’Agata dei Goti

Il Salone del Castello di Sant’Agata de’ Goti, unica testimonianza superstite di un ciclo decorativo settecentesco più ampio che doveva interessare l’intero complesso, è di grande importanza storico artistica. Di proprietà privata, fu parzialmente restaurato dalla Soprintendenza nel 1993, che – leggendo l’affresco come un prodotto isolato dal suo contesto ed effettuando una valutazione estetica e qualitativa – ritenne opportuno “salvare” soltanto la scena raffigurante il mito di Diana e Atteone, firmata da Tommaso Giaquinto (Avellino, 1661? – Napoli, 21 febbraio 1717) e datata 1710 («T. Iaquintus 1710»),
Il Giaquinto, originario della provincia di Avellino e allievo di Giordano, è tra i pittori coinvolti in un rinnovamento culturale ed artistico di vaste proporzioni promosso i9n epoca barocca dal nuovo vicerè di Napoli Gaspar de Haro y Guzmàn (1629-1687), Marchese del Carpio, noto collezionista d’arte e appassionato di maioliche. Alla fine del Seicento, sotto il governo del duca Marzio Pacecco Carafa di Maddaloni, viene chiamato per la prima volta a Sant’Agata dei Goti, dove dipinge la sua prima opera nota: L’Intercessione di S. Agata e S. Stefano (1698).

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Sotto gli stimoli e il gusto della famiglia Carafa e del vescovo Filippo Albini (1699 – 1721), Giaquinto diventa il protagonista indiscusso della rinascita barocca dell’antico borgo, che si va popolando di una nuova aristocrazia legata alla corte dei Carafa e che recupera le preesistenze medievali e quattrocentesche per trasformarle in bellissime residenze signorili. Si trasferisce in questo periodo a Sant’Agata, ad esempio, la famiglia Viparelli, che compra nel 1702 un immobile insistente sull’attuale piazza Municipio, all’angolo con via Perna, risalente al X secolo e fatto modificare secondo gli orientamenti strutturali e decorativi dominanti.
Nel 1703 diviene signore di Sant’Agata de’ Goti Carlo I Carafa, figlio di Marzio Pacecco. Il Castello diviene allora il nuovo centro del potere, che deve esplicitarsi attraverso un preciso programma decorativo scelto dal signore. E’ quanto risulta dalla interessante decorazione sopravvissuta nel cosiddetto Studiolo del duca, opera di artisti diversi e forse di provenienza non locale, ma caratterizzata da una certa omogeneità. Vi sono raffigurate scene di mito tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, tutte riferibili alle Quattro Stagioni con i segni zodiacali e le attività svolte in ciascun periodo. I miti rappresentati rimandano tutti a stelle e costellazioni: un modo per celebrare le qualità del duca, esaltando il simbolo del toro, probabilmente segno zodiacale del signore e riferimento indiretto alla nuova politica agricola da lui promossa nei suoi possedimenti.
Questa interpretazione sembra trovare conferma nelle personificazioni delle virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza), raffigurate intorno allo stemma di Carlo I Carafa e di Carlotta Colonna (sposi dal 1699), che troneggia al centro della volta. Essa poggia idealmente su un colonnato dipinto, che si apre su un giardino di agrumi in perfetta integrazione tra pittura, architettura e natura. Alberi in vaso carichi di frutti si notano anche su entrambe le pareti lunghe della sala, dove si trovano raffigurate le scene di mito principali, simboleggianti caccia e bellezza, argomenti evidentemente cari al duca.
Di fronte all’ingresso del Salone trionfa l’unica scena restaurata, dipinta dal pittore Tommaso Giaquinto, che celebra il mito di Diana – dea della caccia e della luna – scoperta al bagno da Atteone. Sulla parete opposta, un affresco fortemente compromesso in cui è riconoscibile un Giudizio di Paride: il pastore, secondo il mito, concesse il pomo d’oro che doveva identificare la divinità più bella a Venere, protettrice dell’Amore e simbolo della Primavera.
Nella volta sono raffigurate scene mitologiche di dimensioni minori e Le quattro stagioni con i rispettivi segni zodiacali: la Primavera, ritratta come Venere in veste di Flora con Eros, allude al fiorire dell’agricoltura e della caccia sotto i segni zodiacali dell’ariete, del toro e dei gemelli; l’Estate è il dominio di Cerere, che sorveglia le operazioni di mietitura sotto i segni zodiacali del Cancro, del Leone e della Vergine. In Autunno, Bacco si gode la vendemmia sotto i segni zodiacali della Bilancia, dello Scorpione e del Sagittario. Chiude l’Inverno, raffigurato come Ercole, divinità protettrice della pesca e della caccia al cinghiale, dopo che ha ucciso l’Idra di Lerna, un mostro a più teste noto per rubare i raccolti e le mandrie. In alto, l’oroscopo si chiude con i segni zodiacali del Capricorno, dell’Acquario e dei Pesci.
Le scene mitologiche minori presenti nella volta, sono racchiuse entro cornici rettangolari ed ovali e partono narrativamente proprio sopra l’affresco del Giaquinto: il ciclo inizia con Il ratto di Europa, la principessa fenicia portata a Creta da Zeus sotto le sembianze di toro. Dalla loro unione nascerà il nuovo re Minosse, che commissiona a Dedalo ed Icaro un labirinto in cui poter rinchiudere il famoso Minotauro. Padre e figlio suggeriscono ad Arianna la soluzione del gomitolo, aiutando Teseo ad uccidere il Minotauro. Per punizione vengono imprigionati nel labirinto, così – per fuggire da Creta – sono costretti a ricorrere ad ali di cera. Nel tondo con Il volo di Icaro è raffigurato il momento in cui Icaro, avvicinatosi troppo al sole, fa sciogliere la cera e precipita in mare. Il padre lo seppellisce in Sicilia.
Intanto Teseo ed Arianna, anch’essi fuggiti da Creta, si rifugiano a Nasso, altra isola greca sulla quale però Arianna viene abbandonata. E’ il momento raffigurato nella scena successiva – Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso – in cui il personaggio che dorme nella tenda potrebbe essere Dioniso/Bacco, che in seguito sposerà la ragazza e le donerà per le nozze un diadema d’oro dal cui nascerà la costellazione della Corona Boreale.

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Proseguendo nella volta, troviamo due riquadri con Scene marine e un’insolita rappresentazione de La morte di Orione. Orione era figlio di Ireo, nato dall’urina di Giove, Mercurio e Nettuno deposta su una pelle di toro seppellita sotto terra per nove mesi. Trascorso il tempo dovuto, dalla pelle viene alla luce un bambino chiamato Urion (da urina) o Orione (in Ovidio, Fasti, lib. V, cap. IV): un gigante bellissimo, scelto da Diana come suo ministro di culto e compagno di caccia. Orione morirà proprio per mano di Diana, colpito da una freccia scagliata per errore. Il mito canta la disperazione di Diana al cospetto del corpo senza vita di Orione e la bontà di Giove, che lo accoglie tra le costellazioni insieme al fedele cane Sirio.
La costellazione di Orione è la più luminosa dell’Emisfero boreale e si trova non lontano da quella del Cane Maggiore, dove splende appunto la stella Sirio.
Al di sopra della scena con la morte di Orione, si trova l’ultimo tondo della volta, che racchiude il mito di Perseo e Andromeda: Perseo, a cavallo di Pegaso, uccide il mostro marino Ceto dopo averlo pietrificato con la testa mozzata di Medusa per salvare Andromeda, figlia di Cedeo e Cassiopea, sovrani d’Etiopia. Perseo, Pegaso, Ceto, Andromeda, Cedeo e Cassiopea sono tutti personaggi che si riferiscono a costellazioni.

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Il ciclo decorativo dello Studiolo, che potrebbe rifarsi più ampiamente alla storia della cultura e delle attività agricole, sembra tener presente abbastanza precocemente gli studi astronomici del polacco Johannes Hevelius, che nel 1690 pubblicò un’accurata cartografia lunare subito considerata tra le più grandi opere scientifiche del Seicento. Nelle sue opere, l’astronomo descrisse ben 11 nuove costellazioni (si veda: Joannes Hevelius, Costellazione del Toro, incisione, dal “Firmamentum Sobiescianum, sive uranographia – Prodromus Astronomiae” , 1690).
Certamente l’affresco fu dipinto tra il 1699 e il 1710, come testimoniano lo stemma di Carlo I Carafa e Carlotta Colonna, sposi dal 1699, e la datazione riportata sull’affresco dipinto da Tommaso Giaquinto. Non è da escludere che l’intero ciclo decorativo sia stato dipinto proprio intorno al 1710 sotto la direzione di Tommaso Giaquinto che – impegnato nel coevo cantiere della Chiesa di San Francesco – dovette ricorrere all’impiego di allievi dalle scarse doti pittoriche per completare velocemente i lavori già avviati. Il 1710, infatti, risulta essere un anno particolare per i Carafa della Stadera in quanto entro quella data si conclusero rapidamente tutti i principali cantieri di famiglia, come il Palazzo napoletano di via Toledo, il Casino ducale di Maddaloni, il Castello di Sant’Agata dei Goti.
Diana e Atteone