Lo chiamavano Jeeg Robot – il cinecomics italiano che strizza l’occhio alla Marvel

il sito della cultura Nerd

Lo chiamavano Jeeg Robot – il cinecomics italiano che strizza l’occhio alla Marvel

Jeeg Robot d’acciaio non c’entra niente. Lo chiamavano Jeeg Robot, Il film di Gabriele Mainetti (scritto da Nicola Guaglianone e Menotti), presentato alla Festa del cinema di Roma ma già cooptato dalla Lucky Red per una prossima uscita in sala, non si rifà alla serie animata giapponese ma ai film di supereroi americani, alle trame con superpoteri e superproblemi e, incredibile a dirsi, lo fa alla perfezione. La storia di Enzo Ceccotti, ladruncolo di borgata romana che cade in un barile di materiale radioattivo e ne esce con i poteri, non è una pallida imitazione o un tentativo in realtà autoriale (come era stato Il ragazzo invisibile), quanto un film che centra perfettamente il suo genere:onesto, concentrato, pieno d’azione e, come i film Marvel, diumorismo che prende in giro il suo statuto senza intaccare la serietà della storia. Il richiamo a Jeeg è un inside joke della storia, perché il supereroe coatto e un po’ scemo è accoppiato a una ragazza impazzita dopo la morte della madre.

Lei non fa altro che guardare episodi di Jeeg Robot d’acciaio ed è convinta che quel mondo sia vero. Quando vede di cosa è capace Enzo, non avrà più dubbi: è lui Jeeg.

Se c’è un eroe ovviamente ci deve essere una nemesi, dunque se l’Enzo di Claudio Santamaria è un ladruncolo che con i poteri appena conquistati cerca goffamente di fare soldi tramite rapine a portavalori e bancomat (una delle molte idee centrate del film è che viene ripreso mentre sradica un bancomat e messo su YouTube, cosa che immediatamente lo rende un mito della resistenza alle banche con tanto di graffiti celebrativi), allora ci deve essere la sua nemesi: Luca Marinelli, boss di piccolo taglio dall’occhio pazzo, sanguinario e determinato a capire chi sia questa figura così potente, da dove vengano i suoi poteri e come poterlo usare per la sua convenienza.

1445093561_lo-chiamavano-jeeg-robot-600x335

Difficile immaginare tutto ciò in uno scenario italiano, o ancora peggio in uno romano. Eppure è esattamente questa l’impresa che rende il film un piccolo gioiello, il suo calarsi nella realtà scelta e avere l’ironia necessaria per saper, a tratti, ridere di come possa andare questa storia in un contesto romano coatto.

Chi è più appassionato può ricordare Mainetti per aver realizzato dieci anni fa un cortometraggio a tema Lupin III (sempre in coppia con Nicola Guaglianone), chiamato Basette, in cui Valerio Mastandrea era il personaggio di Monkey Punch, Marco Giallini faceva Jigen, Daniele Liotti Goemon, Luisa Ranieri Fujiko e a Flavio Insinna toccava Zenigata. Ora, per la prima volta alle prese con un lungometraggio, i due fanno un salto molto più ampio, realizzano una storia che necessita di una postproduzione importante (che non è impeccabile, ma davvero si tratta di un dettaglio di fronte al passo svelto e al piglio vivace del film) e che ambisce ad arrivare là dove, in Italia, nessuno arriva.
L’obiettivo di Lo chiamavano Jeeg Robot, è un cinemadisimpegnato che sia anche di genere, intrattenimento al 100% che sappia divertire e divertirsi, esattamente la categoria di film che andiamo a vedere al cinema ma che non sono mai prodotti nel nostro paese.

Nel conquistare il loro fine primario però i due arrivano anche oltre. Il bello di questo film è di non essere necessariamente per tutta la famiglia, di raccontare una storia di origini tipica ma di contaminarla di una visione personale, più dura e di borgata, che non rifiuta la libidine sessuale (anzi, il loro eroe non fa che pensare al sesso) o gli aspetti più truci di quella vita. Non solo Lo chiamavano Jeeg Robot è un film di supereroi indipendente all’americana dunque, ma del suo modello rifiuta la componente più fastidiosa, quello sguardo puritano su personaggi e ambienti, sfruttando invece la crudezza del realismo metropolitano cui il cinema e la televisione migliori degli ultimissimi anni (anche italiani) ci hanno abituato.

fonte: wired.it

I commenti sono chiusi.