La terra e la morte (di Cesare Pavese)
Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
Imbattibile e indifesa, estemporanea ed eterna, coerente e instabile, conforme e alternativa, sconosciuta e arcinota, immane e infima. Questa è la natura umana. Un universo di contraddizioni, del quale il poeta piemontese descrive un pezzo di costellazione, attraverso una serie di brevi periodi, che assomigliano più ad echi d’inchiostro, in cui le parole non risultano mai in antitesi, ma amalgamate in maniera così viscerale da sembrare figlie dello stesso verbo ancestrale.
Nonostante le parole passate, che ancor violentano la propria anima, vengono prese a calci e pugni, già si cerca di riceverne altre ricolme di speranze nuove o rivisitate, di cui si vuole ignorare l’infausto porto finale.
Tutti ci eleggiamo a ricercatori e dispensatori di felicità, a costo di suicidare la propria volontà.
Noi stessi siamo vittime e carnefici dei nostri, il più delle volte, scriteriati gesti, per raggiungere quell’agognata pace, nutrita da così tanti compromessi da svilirne il reale raggiungimento.
La contraddizione è innata nell’essenza di ogni uomo. Sempre nella propria vita, l’uomo si pena di tanti affanni e rincorse, spesso senza senso, per poi scomparire nel nulla e restare al massimo un flebile ricordo di pochi.
Noi, nel medesimo tempo, siamo, e non possiamo fare a meno di essere, un muro e un prato.
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